Cos’hanno in comune l’ex ministro scozzese per la cultura, gli esteri e l’Europa, un ristoratore di Glasgow fiero di aver inventato la pizza “Matteo Renzi” e il professore di ingegneria chimica dell’università di Edimburgo? Niente, se non l’appartenenza consapevole ad una comunità, quella degli italiani in Scozia, che è tra le più peculiari al mondo.
Che gli italiani all’estero siano storicamente presenti in numero più che abbondante è poco ma sicuro. Che poi questo sia particolarmente valido per il Regno Unito è ancora più vero. Chi ha una certa familiarità di Londra sa che in un tragitto in metro verso Camden spesso sembra di stare nella Metro A romana, anche se con un decimo dei problemi e probabilmente meno turisti. Gli italiani, tra l’altro, si notano subito: non per il rumore ma per la sfacciataggine nel rompere la regola non detta che sul Tube sia vietato parlare.
Il caso della Scozia però è differente da quello di qualsiasi altra comunità italiana nel mondo, perché è forse uno dei migliori per raccontare il difficile equilibrio tra integrazione e assorbimento, tra la paura e il desiderio di essere italiani. Tra essere italiani in Scozia, o italoscozzesi. Gli aspetti che rendono la Scozia differente dagli altri paesi in cui si trovano grandi comunità italiane sono numerosi. La Scozia è un paese piccolo, con poche città dove si concentra la maggior parte della popolazione. Pur facendo parte di uno stato grande e proiettato a livello internazionale, la Scozia rappresenta una piccola nazione dentro la nazione che mantiene separata la sua identità culturale.
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CENT’ANNI DI ITALIANI IN SCOZIA
Cesidio Di Ciacca ha un nome che potrebbe sembrare al massimo la storpiatura di uno italiano. Invece, è il nome, un tempo molto diffuso, di un martire della zona tra il sud del Lazio e l’Abruzzo, e questo dice molto sulle origini della comunità italiana in Scozia. Figlio di emigrati della prima ondata, ci ha potuto raccontare bene la storia degli italiani in kilt. Londra e Manchester hanno visto italiani venire da tutto il paese, dalla Sicilia al Piemonte, al contrario di Edimburgo e Glasgow . La prima e più importante immigrazione italiana in Scozia avvenne tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 quasi esclusivamente da due paesini che sono diventati famosi probabilmente solo per aver dato i natali a italo scozzesi come il premio oscar e nuovo Doctor Who Peter Capaldi: Barga, vicino Lucca, e Picinisco, tra Frosinone e Cassino.
Intorno al 1905, quasi un quinto degli italiani nel Regno Unito (circa cinquemila persone) viveva in Scozia e veniva da queste due cittadine. I problemi che un italiano potesse incontrare nell’emigrare a Edimburgo o a Glasgow erano simili a quelli che affrontavano (e affrontano) altri emigranti: gli italiani erano disposti a lavorare di più e a meno, e questo ai lavoratori scozzesi ovviamente non piaceva. Gli italiani erano poi cattolici, un fatto che non andava particolarmente a genio ad una Scozia presbiteriana in cui la presenza sociale e politica locale più forte era la Kirk, la chiesa scozzese – il parlamento era dal 1707 a Westminster.
L’avversione che gli scozzesi provavano per gli immigrati irlandesi era però nettamente superiore a quella verso gli italiani: non fu mai pubblicato un equivalente italiano al pamphlet del 1923 The Menace of the Irish Race to Our Scottish Nationality. Gli irlandesi erano di più, più concentrati e, soprattutto, avevano già un ruolo nell’Unione. Cattolici e separatisti, erano loro i troublemakers della famiglia britannica, soprattutto per gli scozzesi protestanti e fortemente unionisti. Mentre gli irlandesi competevano con gli scozzesi in prima linea per il lavoro nell’industria come operai, gli italiani si occupavano principalmente di ristorazione. Non avendo gli scozzesi grande interesse a competere nella vendita del gelato, gli italiani trovarono facilmente il loro posto nella società scozzese. Verso gli anni ’10 del 1900 il grosso dell’immigrazione italiana si spense e la comunità si avviava verso un processo di integrazione forse più semplice che altrove. Un percorso che però si sarebbe arrestato nel 1940.
I problemi nacquero infatti nella seconda guerra mondiale, quando il panico per la crescente potenza nazista convinse Churchill a ordinare il Collar the Lot!, ossia la cattura dei cosiddetti enemy aliens, i tedeschi e gli italiani che vivevano nel Regno Unito. Una scena simile ai campi di internamento per giapponesi e italiani negli Stati Uniti dopo Pearl Harbour. Il fatto è che gli italiani in Scozia erano particolarmente riconoscibili: pur nella loro integrazione e nel buon inglese che parlavano con gli scozzesi, erano pur sempre i gelatai e proprietari di fish and chips che andavano a messa la domenica e parlavano nel retrobottega in dialetto. Presi dagli stessi ufficiali di polizia che erano assidui frequentatori dei loro locali, i maschi in età da lavoro, e non solo, vennero divisi: alcuni nei campi di prigionia come quelli dell’isola di Man o delle Orcadi, e altri imbarcati sulla nave da crociera riadatta per il trasporto prigionieri Arandora Star, diretta verso il Canada.
I primi attraversarono un periodo duro, ma dal quale la maggior parte sopravvisse. Furono gli stessi 550 internati italiani nelle Orcadi a costruire la famosa cappella con mezzi di fortuna. Mettendo insieme due baracche militari Nissen di corrugato, materiale per le fortificazioni militari e l’abilità di due artigiani italiani prigionieri, venne costruita una piccola chiesa che è tuttora una famosa attrazione turistica. Domenico Chiocchetti, l’autore delle decorazioni, rimase addirittura dopo la fine della guerra per completarla, e ci tornò per restaurarla durante tutta la sua vita.
I prigionieri sull’Arandora Star non furono così fortunati: la nave fu affondata da un U-Boot tedesco due giorni dopo essere partita da Liverpool, il 2 luglio 1940. Dei 734 italiani a bordo, 486 morirono. La discussione è ancora aperta sul perché la nave non portasse la croce rossa per indicare la sua funzione o se effettivamente le scialuppe di salvataggio fossero in numero adeguato ai passeggeri trasportati. L’incidente fu comunque uno shock per la comunità italiana, che poteva e può tuttora dire per la maggior parte di aver avuto almeno un parente morto nell’affondamento.
L’episodio rese ancora più difficile il ritorno alla vita di tutti i giorni della comunità italiana con la fine della seconda guerra mondiale. Quello che ci ha detto Cecidio è che negli anni ’50 non era tanto forte il risentimento per la tragedia dell’Arandora Star, quanto la paura. Da una parte il governo britannico aveva tutto l’interesse a che un episodio increscioso e poco chiaro con quelli che ora erano amici e alleati fosse messo a tacere. L’Italia non aveva poi nessun piacere a rivangare un fatto legato al suo recente passato fascista. Dell’Arandora Star non si parlò per anni e la comunità italiana ebbe un obiettivo principale: quello dell’integrazione a tutti i costi.
Tre furono i cambiamenti. L’italiano fu messo da parte, e persone come Lorenzo Alongi, avvocato scozzese con i genitori di Picinisco, ci raccontano che l’italiano si parlava solo con la nonna che non parlava inglese, o in vacanza. I parenti proibivano in negozio qualsiasi uso dell’italiano. I nomi vennero poi inglesizzati: Giuseppe in Joseph, Marco in Mark. Infine, la comunità italiana in Scozia capì che l’integrazione sarebbe stata raggiunta solo elevandosi adun differente livello sociale: da gelatai e venditori di oggetti sacri porta a porta, gli italiani decisero di mandare i figli all’università perché diventassero imprenditori, avvocati e politici. Di qui la seconda generazione di italiani in kilt, che sempre di più incominciava a sembrare più scozzese che italiana.
Forte comunque di un certo senso di comunità e grazie all’alleggerimento della situazione negli anni ’70 e ’80, la comunità italiana riuscì a mantenere la sua identità. Furono gli anni in cui, come ci dice Lorenzo Alongi, era cool essere italiano all’università e la tradizione di fare le ferie in Italia rimaneva l’occasione per parlare italiano. La lingua riuscì più o meno a sopravvivere nella comunità, fino ai giorni nostri. La tragedia dell’Arandora Star fu infine riscoperta e commemorata con un parco dedicato alla memoria, aperto alla presenza dell’arcivescovo Contini e del primo ministro Alex Salmond nel 2011.
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ITALIANI PER L’INDIPENDENZA (SCOZZESE)
Cercare di comprendere la situazione della comunità italiana in Scozia è un ottimo paradigma per capire le dinamiche di difesa e scomparsa dell’identità nazionale nel mondo. Il dibattito per l’indipendenza è stato un ottimo banco di prova. Il primo contatto in assoluto che ho avuto quando iniziai a fare ricerca sull’indipendenza scozzese fu con il coordinatore di uno dei gruppi Yes locali, in una parte sperduta delle Highlands scozzesi. Nell’ignoranza che avevo al tempo sulla questione, mi sarei aspettato un madrelingua gaelico in kilt e cornamusa. Difficile descrivere la mia reazione quando ricevetti la risposta da Antonio Vastano, proprietario di un ristorante nel mezzo della brughiera più desolata ma autore di una pizza tra le migliori che possa ricordare. Iniziai a pensare quindi che la comunità italiana, quando impegnata nel dibattito, fosse pro indipendenza viste le politiche inclusive del partito nazionale scozzese. Mi sbagliavo anche lì.
Quello che sono riuscito a capire, non senza difficoltà, è che esiste un mix tra il senso di proprietà morale e intellettuale del dibattito politico scozzese e la forte consapevolezza della propria identità italiana. Per raccontarla con le parole di Domenico Crolla, il pizza artist creatore della pizza con il viso di Matteo Renzi, non c’è solo o soprattutto la bandiera italiana o quella scozzese: qualche volta l’una, qualche volta l’altra. L’indipendenza scozzese è una questione centrale per l’anima scozzese, ma va affrontata da italiano: così per il Sì, così per il No.
Nascono così delle situazioni inaspettate in cui un dibattito politico che di italiano non dovrebbe avere nulla si tinge più che mai di italianità. E’ il caso ad esempio dello scambio di battute su Twitter tra Toni Giugliano, imprenditore nato a La Spezia ma da sempre in Scozia e attivista per lo Yes e il giornalista unionista Euan McColm che lo prende in giro per gli errori di spelling in inglese, parlando della riforma dell’istruzione in Scozia.
È il caso di Domenico Crolla, che da ristoratore non si schiera non per mancanza di idee politiche, ma perché crede che sarebbe come mettersi in mezzo ad una discussione tra supporter dei Celtic e dei Rangers, o tra romanisti e laziali (suoi gli esempi). Per gli italo scozzesi di Glasgow ma con origini a Frosinone i due si sovrappongono.
Da una parte quindi la comunità italiana ha una presenza forte nella politica scozzese. Tra i gruppi per l’indipendenza esiste un Italians for Yes, e due dei membri del parlamento scozzese più conosciuti da parte dell’SNP sono italiani: Linda Fabiani, l’ex ministro di cui abbiamo accennato e Marco Biagi, l’autore della proposta per la legge scozzese sul matrimonio di persone dello stesso sesso. Il responsabile per le relazioni internazionali dei veneti indipendentisti, Giovanni della Valle, è membro dell’SNP da lungo tempo. La comunità italiana delle Orcadi, quella che discende dai costruttori della storica cappella, si è fatta conoscere per il suo supporto al No, ma anche lì le posizioni non sono state compatte. Di tutti gli italiani che sono stati intervistati, nessuno si è astenuto dal dire la propria sull’indipendenza.
È mancata però una visione italiana di tutto questo: chi avvocato, chi imprenditore, chi nelle Highlands, chi nelle città, gli italiani in Scozia avevano ognuno le proprie ragioni chi per lo Yes, chi per il Better Together. A patto però di poterli chiamare Sì e No.
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NUOVE IMMIGRAZIONI E ITALIANITA’ IN VIA D’ESTINZIONE
Il fatto che il best seller scozzese che parla degli immigrati italiani ne racconti la storia attraverso una serie di ricette (Mary Contini, Dear Francesca: An Italian Journey of Recipes Recounted with Love, Ebury Press, 2003) è forse significativo delle difficoltà di mantenere l’identità della comunità italiana in Scozia altrove che in cucina. Eppure i tentativi sono molti, e la necessità sempre più grande.
Negli ultimi anni si stanno riproponendo i flussi di emigrazione di primo Novecento: il primo paese per emigrazione italiana nel 2013 era infatti il Regno Unito, e crescente importanza hanno Canada e Australia. Secondo l’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero (AIRE), 12.904 italiani sono espatriati ufficialmente in Gran Bretagna, con +71,5% rispetto all’anno precedente e su un totale di 94.126. E’ un’emigrazione diversa, che vede soprattutto laureati e ricercatori trovare possibilità nelle università britanniche, a fronte del blocco delle assunzioni in Italia.
La Scozia però ha comunque una corsia preferenziale: la Bella Caledonia offre una vivibilità per le dimensioni e il tipo di ambiente lavorativo che non sono comparabili a quelle di Manchester o Londra. Non è un caso se la nuova emigrazione italiana verso la Scozia si compone in parte di emigrati di prima mano, stavolta però soprattutto da Bari, e in parte di italiani che si trasferiscono prima in Inghilterra, per poi salire su. E’ la fuga dalla vita condizionata dal Working Time Directive Waiver, l’accordo firmato prima di intraprendere lavori come l’avvocato o il consulente a Londra e che permette al datore di lavoro di non dover rispettare limiti di orario nell’impiegare i propri dipendenti. E’ l’avvicinamento ad una realtà che offre settori più umani rispetto alle compagnie di consulenza, alla finanza e alle law firm della City.
Di fronte però a una costante importanza della comunità italiana di vecchia generazione, e a una crescente della nuova, tutte e due impegnate nella politica scozzese, c’è bisogno di un fil rouge che faccia da collante. Parlando con il Console Generale ad Edimburgo Carlo Perrotta, è uscita fuori la questione della lingua, non quella del Bembo o del Manzoni ma ugualmente importante. In una comunità che è fatta in parte di ormai tre generazioni diverse e di una composizione geografica e sociale molto varia, è l’italiano a fare da trait d’union tra i nostri connazionali in Scozia e con quelli in patria. Non bisogna darlo per scontato: integrati in una realtà in cui l’italiano non ha posto nella quotidianità, la tendenza è che la nostra lingua scompaia. E’ il motivo che sta dietro ai gruppi di lingua a Edimburgo e Glasgow, dove i volontari italiani insegnano la lingua a famiglie che non vogliono perderne la familiarità o a chi vuole impararlo. Il fatto che uno dei progetti più grandi, sempre organizzato da volontari, sia portato avanti da una psicologa, un ingegnere e una cantante la dice lunga sulla composizione eterogenea degli italiani in Scozia.
La questione della comunità italiana propone però una serie di domande più ampie su quello che potrebbe essere il ruolo degli espatriati italiani. Almeno in questo caso, la coscienza nazionale è accompagnata da una presenza massiccia nell’economia e nella politica estera. Un fatto probabilmente valido anche per il mezzo milione di italiani a Londra. La fuga di cervelli aumenta le potenzialità di questa comunità, che non vende più gelati o fish and chips ma spesso rappresenta parte dell’elité culturale del paese. Il punto è che non esiste nessun tentativo di sfruttare queste potenzialità di influenza da parte della madrepatria. Se in Scozia avesse vinto il Sì, ed è mancato solo il 5% dei votanti, una buona parte delle persone coinvolte nella creazione ex novo di un nuovo stato sarebbero stati italiani. Senza che però ci fosse veramente un’anima coerente italiana dietro alle loro idee.
Il punto qui è valorizzare una competenza politica, economica e scientifica, per poter beneficiare di quell’eccellenza italiana devoluta all’estero. Si parla di sviluppare un network di conoscenze intra nazionali e internazionali tra gli italiani in patria e all’estero, che potrebbe vedere nella lingua e nella cultura il suo trade d’union, nello stesso modo in cui l’italiano unì la penisola centinaia di anni prima della politica. Senza contare il fascino della cultura italiana, che in Scozia è più forte che mai. Non per nulla il portavoce dell’Arcidiocesi di Glasgow, Ronnie Convery, non è italiano ma il suo interesse per la nostra cultura ha fatto sì che lo imparasse alla perfezione. Così molti altri scozzesi che vengono assorbiti dalla comunità italiana, per poi magari scoprire di avere, a loro insaputa, qualcosa di italiano. La storia dello stesso Convery, che, adottato, scoprì di avere sangue italiano, dopo decenni di studio della lingua italiana.
A quanto pare, da Edimburgo fino alla punta più a nord della Scozia, è davvero difficile liberarsi dell’Italia.
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Autore: Lorenzo Colantoni
Fonte: Espresso.repubblica.it
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