La fiera di Sant’Antonio nei primi del Novecento raccontata da Luigi Alonzi

Arrivai a San Donato tra le dieci e le undici del mattino, giusta in quell’ora che il va e vieni e l’affittirsi di ogni fiera tocca il limite, e stravasa. Venivo da Sora. Addossato al parapetto di un ponticello, posto se ben ricordo entro il paese in una specie di largo alberato, mi posi prima a guardare, la testa in su, l’alveo di un torrentaccio secco bruciato, che scendeva dalla montagna ripido da far paura. Ebbi fin l’impressione che mi cascasse addosso, o che io vi cascassi dentro, e così ruzzolassi per tutto il restante della costa sino al fondovalle. Chissà che musica quando la tempesta s’abbatte in cima a Forca d’Acero. San Donato è l’ultimo comune ciociaro a ridosso della valle che prende il nome dall’antica Cominium, ed è su in altura, al confine con gli Abruzzi.

Un odore di tegame ben drogato, quel tipico odore di cucina di fiera, faceva tutt’uno con la confusione dell’ora, gli strilli dei rivenduglioli, le filastrocche degli imbonitori; dava quasi al cervello. Ma l’aria era sottile, e sapeva di bosco; una manna con quel sole arrabbiato. Appeso al battente aperto di un’osteria di quei pressi, scuoiato e con le entragne esposte, un castrato pendeva col capo in giù; sopra un tavolo messo per lungo e portato dalla cantina sino al margine della soglia, il solito piatto di pesce fritto ingabbiato nella moscarola. Sul tavolo c’era anche un cocomero, bello tondo, bello grosso; in posizione di piena visibilità una fetta ne indicava il grado di erubescenza.

Carrettieri in fusciacca multicolore con la frusta a tracolla, sensali loquaci appoggiati alla mazza di corniola lussureggiante, villani di più luoghi, in costume entravano e uscivano. Taluni prendevano posto o s’approvvigionavano, altri prenotavano e a gran voce lanciavan saluti all’oste; altri ancora di fuori, bevevano in piedi e trattavano. C’erano vetturali che tracannavano a testa levata, le gambe allargate, la frusta penzoloni; vedevi le protuberanze delle gole muoversi su e giù, a seguire i movimenti di deglutizione. Bevevano rumorosamente e a occhi socchiusi, ciascuno alla salute di tutti. Le donne, in minor numero, vincevano la tentazione del pranzo occasionale con timidezza duplice, innata e campagnola; e perciò si tenevano d’accosto agli uomini, talune dietro la schiena loro.

Vidi una bambinetta piangere, e piangendo esortar la madre ad uscire: «Jamocéne, ma’ … jamoncénn». Vestiva come le grandi, e sembrava l’Assennatezza adolescente. Sui singhiozzi di quell’innocente, desiderio di casolare solitario, rimpianto di campagna assolata, scesero le note malinconiche di un cantastorie.

Mi apprestai a sentirlo, rompendo il cerchio di quanti erano accorsi e se lo gustavano, nel cerchio aggiustando anche me. Suonava sotto l’alberata, all’ombrìa: fisarmonica intonata, tecnica di chi sa il fatto suo. Con la schiena e uno dei piedi poggiati sull’albero, l’orecchio destro attento sullo strumento, lasciava che le dita giocassero sulla tastiera e gli accompagnassero la voce della sua donna. Feci presto a capire che l’animo di quel povero girovago non era nel giuoco ormai saputo delle dita, sì bene in ciò che esse rendevano. Così il canto prese anche me, come già aveva preso gli altri, e fummo tutt’uno. Val di Comino è canora, e direi forse meglio poetica.

Si svolgeva il canto semplice e piano, tra chiesiastico e popolare, mai sciatto, mai propriamente liturgico. A quanti lavorano e hanno cuore, i lavoratori dei campi, gli artigiani di ogni mestiere, narrava i miracoli del Santo «giglio giocondo, nominato per tutto il mondo»;e cercava la meraviglia più in ciò che voleva raccontare che nell’effetto di arte. Chiudeva così il ritornello:

Vai vestito sempre da frate:
Viva Sant’Antonio Abate!

Gli ultimi versi mi fecero un po’ riflettere meglio sul contenuto della canzone, e mi resi subito conto che la duplice agiografia antoniana non era certo il forte del cantastorie. Il pover’uomo mai in vita sua aveva fatto il sagrestano, se impastava così alla leggera i miracoli dell’Asceta del deserto col Santo di Lisbona. Del resto, il popolo non se ne accorse e io nemmeno dissi nulla. Comperai anzi il foglietto che la donna andava distribuendo, lo lessi e rilessi, e vi assicuro che lo conservo ancora.

Si spostavano di tanto in tanto il girovago e la moglie, non vecchi ma patiti; e non li mollai sino a che non ebbi imparato e versi e accordo. Grigi di polvere, scuri e scarni nel volto, sembravano figli del sudore e della strada quei poveracci.

Così, per il piacere del cantastorie, senza esserne andato alla cerca, m’ero trovato a gomito a gomito con certi fior di belle ragazze, che vi so dire. La più ricca mostra di costumi, oltre tutto, che avessi veduto in vita mia; con questo di diverso, che lì in fiera tutto era natura e spontaneità, fin gli esseri graziosissimi che quei costumi indossavano; e invece, nelle rassegne propriamente dette, quanta posa e quali artifici di fuori e di sotto.

La festa aveva chiamato a raccolta quella selva di gioventù da tutti i borghi e i vichi e i paesi della valle; ce n’erano di Vicalvi, di Montattico, di Casalvieri, di Alvito, di Valleluce, di Atina, di Villalatina, di Fontechiari, di cento altri luoghi; e ciascun gruppo recava i segni particolari della provenienza: parlata, portamento, acconciatura.

Belle ma rustiche, diranno i molti, graziose ma poco interessanti; e tra i sospettati di riserbo cittadino includete anche me. Eppure io vi giuro che tra le giovani convenute alla fiera di San Donato non ne vidi nessuna con le cioce, nessuna che non avesse a portata di mano un’occhiata traditora, nello sguardo accoltellatore.

Voglio dire che certe definizioni, certi giudizi sommari (la bella pretesa di voler misurare tutto e tutti col metro del comune giudizio, insomma) possono a volte far la figura di quei coperchi di coccio fesso: li metti sulla pentola, si spaccano, e ti vanno a finire a pezzi nell’acqua bollente.

Che belle pettorine bianche candide, intorno al collo e sul petto di quelle figliole; e come ci si stagliavano il contorno e le luci delle collanette!

Ognuna aveva i suoi coralli tondi o sfaccettati, gli orecchini dai grandi cerchi con che il sole del mattino giocherellava, ognuna la sua veste dai mille disegni, dai cento colori, il suo zendalino allegro e ciarliero, le sue scarpette a punta. E ovunque sete morbide, nastri di roba fine, velluti cangianti, sissignori; e lini di ieri custoditi nel canterano col mazzetto di spigonardo, e lane di vello di pecora, vello di un anno, tosato tra il maggio e il giugno dopo il tuffo sacramentale nelle acque del Melfa.

Chiesi a un gruppetto allegro frugante su un bancherello di oggettucoli e ninnoli, il nome di quella speciale acconciatura, di quel fazzoletto che in foggia mai per l’innanzi veduta copriva loro il capo a pieghe e rialzi. Chiesi… ma la risposta mi venne da una vecchietta, gentile in verità e più ancora compassionevole, inosservata sull’uscio prossimo di un’abitazione. Scesi i due scalini della porta di casa, m’era venuta incontro premurosa e sorridente. Seppi così per bocca di una sandonatese in età, dell'”uommacìle”, il caratteristico copricapo in uso tra le donne di Val di Comino. Le altre s’erano allontanate senza nemmeno rispondermi, incrociando sguardi di traverso sulla mia confusione.

Se le gambe, chissà, mi dovessero un giorno riportare a San Donato, non più con la stilografica affacciata al taschino ci tornerò, né col decimo di Tito Livio in saccoccia, alla ricerca dei luoghi dove la spada di Roma creò l’immane tragedia sannita. Tornerò invece lassù ornato di un bel paio di guardamacchi, calzerò i piedi con un altro bel paio di cioce, e le sceglierò di punta ben lunga, ricurva all’usanza orientale, come piacciono agli agricoltori del Liri e del Melfa. Pezze di tela fresche di bucato sui polpacci, e intorno intorno stringhe di corame nero, con una mano di strutto. Per il resto, giacca corta tagliata a risparmio e camicia di cotonina bianca, scollata. E perché non mi abbiano a giudicare troppo sannita, infilerò nella fascia del cappello a cono una immaginetta di Nostra Donna di Canneto.

Così rifatto mi proverò a ripetere alle valligiane del Comino una eguale domanda.

Luigi Alonzi