Grazie a Capocci, la prima donna andò sulla Luna nell’anno di grazia 1857: centododici anni prima di Neil Armstrong

storie_20-07-19Il cinquantenario dello sbarco sulla Luna ha rinnovato l’interesse per il nostro satellite. In ogni epoca esso ha ispirato storie e la creatività degli artisti. Numerosi sono stati i racconti, le leggende, le poesie, i film e le opere d’arte che nei secoli hanno arricchito la nostra cultura. Tra i grandi italiani vanno ricordati Giacomo Leopardi, Ariosto ed Ernesto Capocci (1798-1864) di Picinisco, che scrisse Viaggio alla Luna: relazione del primo viaggio alla Luna fatto da una donna l’anno di grazia 2057. Il racconto è stato ripubblicato di recente nell’antologia Dall’Italia alle stelle (e ritorno) curata da Luca Leone.

URANIA, LA PRIMA DONNA SULLA LUNA
Ernesto Capocci (1798-1864), astronomo e scrittore, è ricordato tra i padri della fantascienza italiana. Direttore dell’Osservatorio di Capodimonte, fu destituito nel 1850 per le idee liberali e la partecipazione ai fatti del 1848. Scrisse diversi testi di divulgazione scientifica. Nel 1857, otto anni prima di Dalla Terra alla Luna di Jules Verne, diede alle stampe Viaggio alla Luna. L’opera è il prototipo del racconto fantascientifico-didattico: la narrazione fantastica diventa strumento per divulgare la scienza e la cultura astronomica. Protagonista dell’opera è Urania, la prima donna in carne e ossa a mettere piede sulla Luna con mezzi scientifici.

LO SBARCO SULLA LUNA NARRATO DA CAPOCCI

Ora bisognava apprestarsi per la discesa. Arturo aveva svegliato i nostri giovani, con i quali ci preparavamo a mangiare poche ma scelte e abbondanti vivande. L’appetito non mancava a nessuno di noi, ma essi sembrava che non avessero affatto dimenticato di aver digiunato per otto giorni. Ciò nonostante essi si diedero da fare per le necessità che occorrevano per la manovra della discesa, non difficile (come diceva Arturo), ma complicatissima. Io intanto (data in fretta un’ultima occhiata al nostro pianeta) ero tutta intenta e assorta allo spettacolo della Luna, che mi rimaneva di sotto.

La faccia argentea della bella Cinzia (la Luna, ndr) mi si offriva come in un cannocchiale di grandezza ordinaria, ma la visione era assai più viva e distinta; ora non la guardavo non più un piccolo foro con un solo occhio, ma la vedevo e la godevo liberamente con entrambi gli occhi spalancati, che non sapevano saziarsene. Essa, peraltro giunta al suo pieno, sembrava una mappa geografica, non essendo ancor discernibile per la distanza la convessità del suo emisfero, sul quale si proiettano le parti salienti della superficie. Ma pure così lontana, destava grande interesse: si scorgevano i tratti principali delle sue formazioni geologiche, i quali sarebbero presto sfuggiti tra gli svariati particolari topografici della  scabrosissima superficie. A prima vista essa mostrava una grande analogia con un planisfero terrestre, ma nel tempo stesso una grande e bene scolpita diversità nelle sue parti: le grandi macchie che i nostri antichi avevano qualificato per mari, rassomigliavano veramente ai nostri oceani; ma invece di inghirlandare le terre (come diceva il nostro Dante) erano da queste cerchiate con certa regolarità che contrastava molto con le frastagliate forme oblunghe e sporgenti dei nostri continenti terrestri.

Tutta la superficie mostrava degli spazi circolari (ellittici poi apparentemente vicino al lembo del disco per lo scorcio della proiezione), come gli antichi cerchi druidici, di tutte le più svariate grandezze e tanto profusamente sparsi su quelle terre e anche sui pretesi mari, che mai nostri laghi o golfi e tutti gli accidenti della superficie terrestre porgono nulla di simigliante; se pur non voglia vedersene una microscopica miniatura nei vulcani spenti dei Campi Flegrei, o in qualche altro breve tratti di suolo eminentemente vulcanico.

La singolarità poi che maggiormente si allontanava dalle apparenze terrestri, erano certe strisce rettilinee luminose, che partendo da taluni centri, s’irraggiavano intorno a centinaia di miglia distanti, attraversando indistintamente ciò che pareva terra e ciò che pareva acqua! Il Monte di Ticone specialmente, nella parte meridionale del disco, splendeva d’un candore così vivace, che sembrava un piccolo Sole tutto circondato di raggi. Mentre questo magnifico spettacolo colpiva tanto la mia curiosità, il nostro moto, che andava sempre più accelerando, mi poneva a mano a mano in grado di concepire meglio e distinguere le forme delle cose che mi avevano colpito di più; ma nuovi oggetti più minuti venivano a pormi nuova curiosità. I miei occhi erano in ammirazione continua di tante strane e inusitate novità; io ero in estasi e quasi quasi in delirio.

Chi potrà ridirti il piacere, la gioia, la meraviglia quando giunti all’altezza di sole dieci miglia, alla vista (a volo di uccello) di questo altro mondo. La mia emozione era al colmo e volevo ricorrere ad Arturo, ma… allora mi avvidi, che la nostra discesa era divenuta precipitosissima ed egli aveva bel altro a fare che dar retta alle mie ciance. Difatti ci trovavamo in un altro momento critico e pericoloso, quasi quanto quello della partenza. Ma tutto era stato sapientemente organizzato. Con meraviglia mi accorsi che avevano disciolto la gomena che ci aveva tenuto legati al proiettile e avevano, non so come, dispiegato sul nostro chiusino una specie di baldacchino, un paracadute insomma, che ritardava alquanto la nostra corsa.

Allora salimmo per la botola che era in cima alla nostra stanza e uscimmo fuori in una navicella assicurata dal paracadute, o per dir meglio, al pallone che stava più in su e che io, nascosta dal paracadute, non avevo visto. Il nostro chiusino, pur distaccato da noi, ne precedeva precipitando velocissimo, dietro la “palla” (il soprannome dato alla loro astronave, ndr), che già era giunta in terra. Quando toccò il suolo si ridusse come una focaccia! Spettacolo terribile per chi stava per fare la stessa fine!

Anche noi precipitavamo a scavezzacollo, com’era chiaro dal terribile rombare dell’aria, negli svolazzi del paracadute, lacerato in più parti. Io mi sentii perduta e saltai con le braccia al collo di Arturo e chiusi gli occhi, aspettando il terribile tonfo e la morte. Tutto questo passava in men che non si dica; quando, dopo una forte scossa, udii altissime grida e un tuono di acclamazioni allegrissime. Aprii gli occhi, guardai intorno…

Miracolo! Eravamo salvi! 

La grande baldoria veniva da una quarantina dei nostri che ci avevano preceduti negli altri viaggi: era quasi l’intera colonia che spiava, grazie agli avvisi telegrafici ricevuti, il nostro arrivo ed era accorsa a portarci soccorso. Difatti conoscendo essi il luogo ove precisamente dovevamo atterrare, dietro il chiusino e la palla, avevano (com’era loro uso) prontamente spasa e tesa di sotto una grande rete di corde saldissime e su di essa si era adagiata la navicella. Non era avvenuto lo stesso ai primi che capitombolarono su quei duri macigni e n’ebbero più d’uno rotte le gambe, la testa e le costole. Puoi immaginare la mia contentezza, quando mi vidi con i piedi in terra, o in “luna”, a dir meglio!