Da San Donato ad Auschwitz: un articolo di Enzo Tortora ricorda la storia di Grete Bloch

storie_27-01-15Le fotografie sono di un azzurro sbiadito, come la stampa di alcune delle stupende pagi­ne del libro che Giorgio Zam­pa dedica a Kafka. Letture e ritratti è infatti il titolo del­l’opera, edita tempo fa da De Donato, e che Zampa estende anche a Rilke e a Thomas Mann. Ma limitiamoci a queste vec­chie foto: sono quelle che po­trebbero sciogliere il mistero del “figlio” di Franz Kafka: un bimbo che, se esistette, sva­nì nel nulla, come in un sogno o in un incubo immaginato dal­lo scrittore praghese. Zampa fu probabilmente il primo a met­tersi sulle tracce di questo bam­bino, la cui esistenza, labile e breve, non ha forse lasciato al­tro segno all’infuori delle due fotografie, struggenti, che lo scrittore inserisce nel suo vo­lume. Avevo visto Zampa re­centemente, a Savona, dove sta­va allestendo Il sogno di Strind­berg per la interpretazione di Ingrid Thulin. Ci stringemmo la mano come vecchi amici, pur non essendoci mai visti prima. Ma sapevamo l’uno dell’altro: la “caccia” al figlio di Kafka l’avevamo compiuta assieme, sia pure per vie e con tempi diver­si, in un paesino della provin­cia di Frosinone: San Donato Val di Comìno.

Là visse qualche tempo, ten­tando di sfuggire a un tragico destino, durante l’ultima guer­ra, l’ebrea Margherita Bloch: la donna che sotto il nome di “Grete” compare spesso nei Diari kafkiani, e che, amica di Felicia Bauer, fidanzata di Franz, avrebbe avuto il figlio da una relazione naturalmente svoltasi all’insaputa della stessa fidan­zata di Kafka. Ma c’è di più: è assai probabile che neppure lo scrittore abbia mai avuto noti­zia di questo bimbo: morto, si dice, a Monaco, all’età di circa sette anni. A San Donato Val­ di Comino visse dunque qualche tempo, braccata dai nazisti, Gre­te Bloch: la sua irrequieta, sin­golare figurina (qualcuno la giu­dicava « un po’ stramba ») è ricordata ancora oggi dagli abi­tanti del paese: oltre che dai superstiti della colonia israeli­tica che con lei divisero quei giorni di amarissimo confino. La donna che gli eventi aveva­no condotto fra quelle monta­gne, la donna che conobbe e amò l’autore delle « Metamor­fosi » e del « Processo », e che raccontava di « aver avuto una volta un bambino da un famo­so scrittore », mi interessava.

Eseguii così un’inchiesta, e fui sul punto addirittura di met­tere le mani su alcune valigie che Greta Bloch, tragicamente eliminata dai tedeschi, aveva la­sciato a San Donato. Vi poteva­no essere documenti e lettere: vi poteva essere la chiave del mistero. Ma nel 1965, le famo­se valigie scomparvero. E con quelle il loro segreto. Oggi Zam­pa, che non comunica la fonte, pubblica – a corredo dei suoi saggi – una foto di Greta Bloch che abbraccia un bimbo, in at­teggiamento di tenera protezio­ne. E un’altra foto dello stesso fanciullo, maggiore di qualche anno, in un lettino d’ospedale, il capo fasciato, un infermiere o un medico accanto. Grete era nubile, sola. Negli ultimi anni viveva di paura e di ricordi. Fumava moltissimo: aveva un estremo bisogno di compagnia, di calore umano. Me ne parla­vano la moglie, i figli del dottor Massa, oggi scomparso, e che ebbe in cura nel 1942 questa esile donna, che dimostrava as­sai più dei suoi cinquant’anni. Soffriva di reumatismi al polso destro, di lombaggini.

Per sfuggire alla caccia, im­placabile, che i nazisti davano agli ebrei, si era decisa a farsi cattolica, battezzandosi, e l’at­testato è ancora conservato ne­gli atti parrocchiali del paese, con data 16 giugno 1943. Poi la retata, nel maggio del 1944. E qui, fatte le doverose felici­tazioni a Zampa per il fiuto, e la sagacia impiegata nelle sue ricerche in merito alle foto e ai documenti sulla relazione Kaf­ka-Bloch, un’unica osservazione. Lo scrittore, circa la fine di Grete, s’accontenta di riprende­re una vaga notizia, che anche il massimo biografo kafkiano, Brod, pubblicò a suo tempo. Quella secondo cui la Bloch «risultò uccisa da un soldato tedesco, con il calcio di un fu­cile».

Non è esatto. Vive ancora a Torino (abita in Corso Orbassano 4) la signora Rosa Myler, che fu l’ultima persona a vede­re, vivo, il lontano amore di Kafka. «Ci portarono da San Donato a Fossoli» mi raccontò la signora Myler durante un in­contro che ebbi con lei: «e di qui, in vagone piombato, ci por­tarono in Germania. Ci fecero scendere ad una stazione dal no­me tragico: Auschwitz. E qui, all’ingresso del campo (erava­mo tantissimi) adottarono una tattica curiosa. Facevano entra­re i deportati a coppie. Greta Bloch ed io eravamo vicine, ci tenevamo per mano. Un tedesco ci smistava. Uno a destra, uno a sinistra. Non c’era un disegno logico: sembrava che volessero semplicemente alloggiar­ci in baracche lontane una dal­l’altra. Invece, chi andava a si­nistra, entrava (come capitò a me, per puro caso) in un ba­raccamento. Chi andava a de­stra, finiva subito nelle camere a gas. Alla povera Greta dis­sero “a destra”. E’ tutto. Non fu uccisa dal calcio di un fucile: fu soffocata, come tanti, nelle camere a gas». La signora Ro­sa Myler è una delle poche per­sone che potrebbero, forse, por­tare un ulteriore contributo al chiarimento del problema che appassiona tanti cultori di Franz Kafka.

A San Donato Val di Comino vive del resto ancora un uomo (anche Zampa ne fa cenno) che con Grete, da lui tanto diversa per gusti, sensibilità ed estra­zione, fu in rapporti che la vo­ce comune definiva «sentimen­tali». Arturo C. di professione orologiaio, parlò anche con me di quel suo lontano ricordo, di quella «signorina Margherita tanto fine, e così istruita». An­cora oggi, suppongo, Arturo C. ignora del tutto chi sia Kafka e quali sentimenti poteva ispi­rare quella che lui definiva «una passioncella» al tormentato au­tore del Castello. «Sì, mi parlava certe sere di aver avuto da lui un figlio. Ma erano pa­role frenetiche, non ci davo nemmeno peso. Non potrei giu­rarci, ma mi sembra che questo bambino si chiamasse Casi­miro».

Arturo C. mi parlava di que­ste cose al tramonto, in una se­ra del 1964. S’era consumato, in quella valle, il destino di una infelice, angosciata creatu­ra. Era stata la donna di Franz Kafka: tutti ritenevano, invece, che fosse una signorina «un po’ originale». Le sue parole, come le notizie sul figlio, nono­stante i suggestivi documenti che Zampa pubblica, oggi non hanno ancora acquistato un ri­scontro definitivo. Del bimbo manca non solo il nome, ma anche l’atto di morte, come un qualunque certificato ufficiale che ne attesti in modo definiti­vo l’esistenza.

Nel novembre del 1964, il figlio del dottor Massa, che eb­be in cura Greta Bloch, mi scri­veva testualmente: «Con som­mo piacere La informo che ab­biamo scovato il punto preciso dove si trovano le valigie della Bloch, lasciate al momento del­la deportazione. Vi sono contenuti indumenti vari, lettere di corrispondenza, fotografie, anche del figlio, nonché un mi­sterioso album». Mi precipitai ancora una volta a San Donato. Tutto scomparso. La Croce Ros­sa, mi si disse, aveva da pochi giorni disposto il recupero di quei pochi beni. Non credo che le foto e le lettere, di estremo interesse, pubblicate da Zampa, facessero parte di quelle tre va­ligie. Oppure sì? Potrà rispon­derci, e chiarire, se lo ritiene opportuno. C’è ancora, a mio avviso, molto da indagare e da cercare sulla vicenda di questo figlio di Kafka. E di questa don­na che nella vita di Kafka, come dice molto bene Zampa, «rappresentò una parte per assurdità pari solo a quella dei più tragici personaggi kafkiani».

Autore: Enzo Tortora*
Fonte: La Nazione (6 giugno 1970)

Enzo Tortora (Genova 1928 – Milano 1988) è stato un giornalista e uno dei più importanti conduttori televisivi italiani. Entrato in RAI nel 1951, dopo un debutto in video nel 1956 nel programma Primo applauso raggiunse la notorietà nel 1959 con Campanile sera, condotto da Mike Bongiorno, curando i collegamenti esterni con i paesi dell’Italia settentrionale. Conduttore, in seguito, della trasmissione radiofonica a quiz Il gambero e della Domenica sportiva (1965-69), riscosse un notevole successo come ideatore e conduttore di Portobello – Il mercatino del venerdì, trasmesso in varie edizioni, dal 1977 al 1983, su Raidue. Vittima di un errore giudiziario, Tortora tornò in televisione con una nuova edizione di Portobello nel 1987, un anno prima della morte.

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