Le fotografie sono di un azzurro sbiadito, come la stampa di alcune delle stupende pagine del libro che Giorgio Zampa dedica a Kafka. Letture e ritratti è infatti il titolo dell’opera, edita tempo fa da De Donato, e che Zampa estende anche a Rilke e a Thomas Mann. Ma limitiamoci a queste vecchie foto: sono quelle che potrebbero sciogliere il mistero del “figlio” di Franz Kafka: un bimbo che, se esistette, svanì nel nulla, come in un sogno o in un incubo immaginato dallo scrittore praghese. Zampa fu probabilmente il primo a mettersi sulle tracce di questo bambino, la cui esistenza, labile e breve, non ha forse lasciato altro segno all’infuori delle due fotografie, struggenti, che lo scrittore inserisce nel suo volume. Avevo visto Zampa recentemente, a Savona, dove stava allestendo Il sogno di Strindberg per la interpretazione di Ingrid Thulin. Ci stringemmo la mano come vecchi amici, pur non essendoci mai visti prima. Ma sapevamo l’uno dell’altro: la “caccia” al figlio di Kafka l’avevamo compiuta assieme, sia pure per vie e con tempi diversi, in un paesino della provincia di Frosinone: San Donato Val di Comìno.
Là visse qualche tempo, tentando di sfuggire a un tragico destino, durante l’ultima guerra, l’ebrea Margherita Bloch: la donna che sotto il nome di “Grete” compare spesso nei Diari kafkiani, e che, amica di Felicia Bauer, fidanzata di Franz, avrebbe avuto il figlio da una relazione naturalmente svoltasi all’insaputa della stessa fidanzata di Kafka. Ma c’è di più: è assai probabile che neppure lo scrittore abbia mai avuto notizia di questo bimbo: morto, si dice, a Monaco, all’età di circa sette anni. A San Donato Val di Comino visse dunque qualche tempo, braccata dai nazisti, Grete Bloch: la sua irrequieta, singolare figurina (qualcuno la giudicava « un po’ stramba ») è ricordata ancora oggi dagli abitanti del paese: oltre che dai superstiti della colonia israelitica che con lei divisero quei giorni di amarissimo confino. La donna che gli eventi avevano condotto fra quelle montagne, la donna che conobbe e amò l’autore delle « Metamorfosi » e del « Processo », e che raccontava di « aver avuto una volta un bambino da un famoso scrittore », mi interessava.
Eseguii così un’inchiesta, e fui sul punto addirittura di mettere le mani su alcune valigie che Greta Bloch, tragicamente eliminata dai tedeschi, aveva lasciato a San Donato. Vi potevano essere documenti e lettere: vi poteva essere la chiave del mistero. Ma nel 1965, le famose valigie scomparvero. E con quelle il loro segreto. Oggi Zampa, che non comunica la fonte, pubblica – a corredo dei suoi saggi – una foto di Greta Bloch che abbraccia un bimbo, in atteggiamento di tenera protezione. E un’altra foto dello stesso fanciullo, maggiore di qualche anno, in un lettino d’ospedale, il capo fasciato, un infermiere o un medico accanto. Grete era nubile, sola. Negli ultimi anni viveva di paura e di ricordi. Fumava moltissimo: aveva un estremo bisogno di compagnia, di calore umano. Me ne parlavano la moglie, i figli del dottor Massa, oggi scomparso, e che ebbe in cura nel 1942 questa esile donna, che dimostrava assai più dei suoi cinquant’anni. Soffriva di reumatismi al polso destro, di lombaggini.
Per sfuggire alla caccia, implacabile, che i nazisti davano agli ebrei, si era decisa a farsi cattolica, battezzandosi, e l’attestato è ancora conservato negli atti parrocchiali del paese, con data 16 giugno 1943. Poi la retata, nel maggio del 1944. E qui, fatte le doverose felicitazioni a Zampa per il fiuto, e la sagacia impiegata nelle sue ricerche in merito alle foto e ai documenti sulla relazione Kafka-Bloch, un’unica osservazione. Lo scrittore, circa la fine di Grete, s’accontenta di riprendere una vaga notizia, che anche il massimo biografo kafkiano, Brod, pubblicò a suo tempo. Quella secondo cui la Bloch «risultò uccisa da un soldato tedesco, con il calcio di un fucile».
Non è esatto. Vive ancora a Torino (abita in Corso Orbassano 4) la signora Rosa Myler, che fu l’ultima persona a vedere, vivo, il lontano amore di Kafka. «Ci portarono da San Donato a Fossoli» mi raccontò la signora Myler durante un incontro che ebbi con lei: «e di qui, in vagone piombato, ci portarono in Germania. Ci fecero scendere ad una stazione dal nome tragico: Auschwitz. E qui, all’ingresso del campo (eravamo tantissimi) adottarono una tattica curiosa. Facevano entrare i deportati a coppie. Greta Bloch ed io eravamo vicine, ci tenevamo per mano. Un tedesco ci smistava. Uno a destra, uno a sinistra. Non c’era un disegno logico: sembrava che volessero semplicemente alloggiarci in baracche lontane una dall’altra. Invece, chi andava a sinistra, entrava (come capitò a me, per puro caso) in un baraccamento. Chi andava a destra, finiva subito nelle camere a gas. Alla povera Greta dissero “a destra”. E’ tutto. Non fu uccisa dal calcio di un fucile: fu soffocata, come tanti, nelle camere a gas». La signora Rosa Myler è una delle poche persone che potrebbero, forse, portare un ulteriore contributo al chiarimento del problema che appassiona tanti cultori di Franz Kafka.
A San Donato Val di Comino vive del resto ancora un uomo (anche Zampa ne fa cenno) che con Grete, da lui tanto diversa per gusti, sensibilità ed estrazione, fu in rapporti che la voce comune definiva «sentimentali». Arturo C. di professione orologiaio, parlò anche con me di quel suo lontano ricordo, di quella «signorina Margherita tanto fine, e così istruita». Ancora oggi, suppongo, Arturo C. ignora del tutto chi sia Kafka e quali sentimenti poteva ispirare quella che lui definiva «una passioncella» al tormentato autore del Castello. «Sì, mi parlava certe sere di aver avuto da lui un figlio. Ma erano parole frenetiche, non ci davo nemmeno peso. Non potrei giurarci, ma mi sembra che questo bambino si chiamasse Casimiro».
Arturo C. mi parlava di queste cose al tramonto, in una sera del 1964. S’era consumato, in quella valle, il destino di una infelice, angosciata creatura. Era stata la donna di Franz Kafka: tutti ritenevano, invece, che fosse una signorina «un po’ originale». Le sue parole, come le notizie sul figlio, nonostante i suggestivi documenti che Zampa pubblica, oggi non hanno ancora acquistato un riscontro definitivo. Del bimbo manca non solo il nome, ma anche l’atto di morte, come un qualunque certificato ufficiale che ne attesti in modo definitivo l’esistenza.
Nel novembre del 1964, il figlio del dottor Massa, che ebbe in cura Greta Bloch, mi scriveva testualmente: «Con sommo piacere La informo che abbiamo scovato il punto preciso dove si trovano le valigie della Bloch, lasciate al momento della deportazione. Vi sono contenuti indumenti vari, lettere di corrispondenza, fotografie, anche del figlio, nonché un misterioso album». Mi precipitai ancora una volta a San Donato. Tutto scomparso. La Croce Rossa, mi si disse, aveva da pochi giorni disposto il recupero di quei pochi beni. Non credo che le foto e le lettere, di estremo interesse, pubblicate da Zampa, facessero parte di quelle tre valigie. Oppure sì? Potrà risponderci, e chiarire, se lo ritiene opportuno. C’è ancora, a mio avviso, molto da indagare e da cercare sulla vicenda di questo figlio di Kafka. E di questa donna che nella vita di Kafka, come dice molto bene Zampa, «rappresentò una parte per assurdità pari solo a quella dei più tragici personaggi kafkiani».
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Autore: Enzo Tortora*
Fonte: La Nazione (6 giugno 1970)
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* Enzo Tortora (Genova 1928 – Milano 1988) è stato un giornalista e uno dei più importanti conduttori televisivi italiani. Entrato in RAI nel 1951, dopo un debutto in video nel 1956 nel programma Primo applauso raggiunse la notorietà nel 1959 con Campanile sera, condotto da Mike Bongiorno, curando i collegamenti esterni con i paesi dell’Italia settentrionale. Conduttore, in seguito, della trasmissione radiofonica a quiz Il gambero e della Domenica sportiva (1965-69), riscosse un notevole successo come ideatore e conduttore di Portobello – Il mercatino del venerdì, trasmesso in varie edizioni, dal 1977 al 1983, su Raidue. Vittima di un errore giudiziario, Tortora tornò in televisione con una nuova edizione di Portobello nel 1987, un anno prima della morte.
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