Domenica 31 agosto, salutando l’ultimo giorno di vacanza (per molti), nell’ultimo giorno della settimana, abbiamo salutato il Festival delle Storie 2014, che questo giornale ha seguito passo dopo passo, lungo i suoi percorsi leggendari, a partire da sabato 23, quando tutto era cominciato. Al centro di questo romanzo sta la Val di Comino: in alto il suo cielo che ha il chiarore celeste del mare; qua e là colline e ulivi e tante case che si diffondono per la vallata come resti di un’onda e splendono sull’arena.
La grande storia raccontata quest’anno dal Festival è divisa in capitoli che evocano figure delle carte dei tarocchi. Il 23 il Festival era tra Posta Fibreno e Fontechiari con Marco Travaglio. Il 24 lo abbiamo trovato ad Atina, con la carta della Ruota, giornata dedicata al mito della bicicletta; il 25 a Campoli Appenino con l’Imperatore capovolto: «Questa carta in genere indica la saggezza, – spiega Vittorio Macioce, ideatore e direttore artistico della manifestazione – ma se capovolta il potere è marcio, si impantana, pensa solo a se stesso».
Tra gli ospiti di questa giornata, Dan Fante, scrittore e figlio di una leggenda della letteratura americana, John Fante, autore di Chiedi alla polvere e originario di Chieti. Il giorno successivo il Festival si è ritrovato con Licia Troisi a Villa Latina; la carta era quella dell’Alchimista, simbolo di colui che medica e vive al confine tra fisica e metafisica. Il 27 agosto era a San Donato Val di Comino con la carta dell’Ippogrifo insieme a Erminia Ferrari Manfredi, moglie di Nino Manfredi e i The Pills e, ancora, con Giorgio Conte a Gallinaro (28 agosto), con Carla Fracci a Picinisco (29 agosto) e con Sara Simeoni ad Alvito (30 agosto). Il viaggio è finito il 31 agosto a Casalvieri sotto l’egida del Narratore con Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro di Un giorno da pecora. Ma questi sono solo alcuni degli ospiti celebri.
Oltre ai suddetti, molti altri (in tutto 160 nomi), tra cui Stephen Amidon, autore del romanzo Il capitale umano (Mondadori), da cui è stato tratto l’omonimo film di Paolo Virzì, Fabio Genovesi e Tim Willocks. Conclusa la quinta edizione del Festival, quali sono le riflessioni “a caldo” di Vittorio Macioce?
«Bisogna liberare l’Ippogrifo, appesantito da chi trova sempre una scusa per dirti che tanto è inutile, tanto siamo già tutti fottuti. Bisogna ritrovare la leggerezza e ribellarsi a chi ti considera un numero, una merce, un dato statistico, una massa senza nome e senza volto. A chi non crede che ogni singolo uomo, insieme con altri uomini, può cambiare la storia. Bisogna ricominciare dal piccolo, da questa valle, perché qui lo sguardo è ancora a misura d’uomo, perché è qui che mi appare con tutta la sua forza la grande bellezza, perché se ognuno si prende cura del suo giardino, di quello che lo circonda, di quello che sente suo, allora le cose cambiano davvero. Questa terra è di chi arriva e di chi parte. E di chi resta. Proprio questo mi sono detto quando ho fatto per la prima volta il Festival delle Storie. Era il lontano 2009 e il Festival nasceva dalle ceneri dell’associazione Antrasarta, che significa nel dialetto del mio paese, “all’improvviso”. Anche quest’anno abbiamo lavorato con questo obiettivo. Liberare l’ippogrifo. Anche quest’anno ci siamo riusciti e abbiamo notato che la gente si è entusiasmata ancora di più. Le persone affezionate alla manifestazione, quelle che ci sono ogni anno, non solo hanno partecipano in mezzo al pubblico ma per la prima volta si sono avvicinate al nostro orecchio e si sono dette disponibili ad aiutarci. Ora, certamente non tutti hanno mantenuto o manterranno la promessa. Ma quello che conta è che poco a poco il Festival sta diventando qualcosa di tutti, qualcosa che non è solo mio o di quelli che lo costruiscono, ogni anno, insieme a me, ma qualcosa che le persone sentono come proprio e questa è la verità: il Festival appartiene alle genti della Valle, le riguarda in prima persona. Il Festival delle Storie adesso è diventato qualcosa di davvero grande: tutta la Valle deve iniziare a credere in questo progetto. Ogni anno cresce il numero delle presenze e noi restiamo sempre, puntualmente stupiti perché gli appuntamenti sono tantissimi e a questi si aggiunge un’infinità di laboratori, per non parlare delle escursioni naturalistiche, delle “cene d’autore”… Ci chiediamo come facciano le persone a sostenere questa full immersion di nove giorni. E poi capiamo che, in fondo, se la manifestazione ha tanto seguito un motivo ci sarà. Il Festival piace a loro tanto quanto piace a noi. Si vede la passione grande ma, che dico?, la passione incontenibile che ci dà la forza. È qualcosa di più di una semplice passione, ecco, è una specie di irrequietezza. Mettere in scena il Festival delle Storie significa camminare su un filo. Nove giorni, nove carte, nove paesi, più di 160 ospiti, laboratori senza limiti, passeggiate nella natura, pranzi, cene. E tutto dal vivo. Esagerato. Irrequieto».
La cifra del Festival delle Storie è l’irrequietezza. Irrequietezza è quella dello staff, composto principalmente da giovani, curiosi e irriverenti, con il desiderio di creare nella Valle quel po’ di bellezza che dia la forza di tornare, dopo essere andati via, certo, a lavorare, a studiare. «Dobbiamo fare questo, questo e questo. Poi ti chiamo. Ci sentiamo. Dobbiamo organizzare!»: per quella foglia che gli tremola dentro, c’è irrequietezza anche in chi resta, soprattutto in chi resta. Penso, tra i tanti, a Luca, a Angelo, a Elisabetta, a Rachele.
C’è irrequietezza in Vittorio Macioce, che ha già nuove idee per la prossima edizione: «Dobbiamo far entrare nel Festival la poesia contemporanea. Ma sarà un insinuarsi dolce e lento». Ha ragione: la letteratura non finisce mai e la poesia è sempre, ingiustamente relegata ai margini della cultura ufficiale. La poesia è “il diverso”, è queer. Il Festival è, invece, scanzonato, curioso e profondamente friendly. Il Festival delle Storie è un’esplosione magica nel cuore della Val di Comino.
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Autore: Davide Di Poce
Fonte: L’inchiesta
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