Domicilio della famiglia Levi

«Era il 1941, quando il Podestà ci mandò a chiamare e chiese a mia madre, Maria Paglia, di ospitare nella nostra grande casa, una famiglia di Ebrei internati a San Donato. Ospitammo i Levi: Enrico, Gabriella e il piccolo Italo. Stettero con noi quattro anni e, nel frattempo, nacque la loro secondogenita che fu chiamata Noemi. I primi tempi trascorsero tranquilli. La nostra abitazione si trovava in via Sbarra, nella parte alta del paese; dietro la casa c’era un orto in cui seminavamo patate, cipolle ed altro ed allevavamo qualche gallina. C’erano anche un pozzo, dove avevamo nascosto una damigiana, delle candele e la zappa, e una profonda grotta incavata nella roccia e nascosta da un muro alto un metro e mezzo con una porticina piccola che non destava sospetti. Per procurarci il cibo che non avevamo, andavamo nelle campagne ed offrivamo in cambio qualche lenzuolo del corredo da sposa di mia madre. Avevo un fratello che si trovava prigioniero in Albania e, forse per questo, mia madre si prodigava nell’aiutare chiunque bussasse alla nostra porta: infatti la grotta divenne ben presto il rifugio dei compaesani ricercati dai Tedeschi, dei vicini di casa durante le incursioni aeree, dei militari fuggiaschi che di notte scendevano dalle montagne per chiedere viveri e cure. Ricordo che tra questi, gli Inglesi, volevano lasciarci delle lettere, che a guerra finita avrebbero attestato la nostra generosità e ci avrebbero dato diritto a benefici; noi, però, non le prendevamo oppure le bruciavamo immediatamente per paura di rappresaglie. I Tedeschi stanziati a San Donato erano Austriaci di Bolzano. Un giorno il camino della nostra cucina prese fuoco e, subito, alcuni giovanissimi soldati accorsero in nostro aiuto, salirono sul tetto e gettarono acqua nel comignolo finché le fiamme furono spente. Mia madre, per ricompensa, diede loro delle uova e quelli andarono via dicendole “tu, buona, mamma!” (chiamavano “mamma” tutte le donne sposate). Quando moriva un cavallo o un asino, distribuivano pezzi di carne anche alla popolazione; ricordo che erano tagliati così grossolanalmente che mi davano la nausea, ma la fame era tanta! Distribuivano anche il loro pane nero e il rancio che riportavano indietro dal fronte. Non erano cattivi con noi Sandonatesi e non ci davano fastidio; solo quando si ubriacavano erano imprevedibili: una sera, infatti, sentimmo sparare otto colpi uno dietro l’altro e vedemmo otto piccoli pulcini ammazzati. Intanto Enrico Levi si era adattato a lavorare come facchino nel trasporto dei rifornimenti alimentari per la popolazione. Mangiavamo tutti insieme nella nostra grande cucina: un tegame di patate, la pasta fatta in casa, le uova e un po’ di pane, quando c’era, ma il tutto senza sale. I bambini si erano affezionati a noi e viceversa. Spesso le altre donne ebree venivano a trovare Gabriella e s’intrattenevano a conversare anche con noi. Ricordo che un anno, per la Pasqua, i Levi ricevettero un pacco col pane azzimo e il vino per la loro cerimonia religiosa. Enrico spesso organizzava rappresentazioni teatrali per i ragazzi del paese presso la casa delle Suore, dove c’era un salone col palco. Ma, dal settembre del ’43 alla primavera del ’44, la situazione precipitò tragicamente; in paese furono affissi manifesti che avvertivano la cittadinanza della esecuzione capitale immediata per chi avesse aiutato i partigiani o i soldati dell’esercito alleato. Ogni sera passava la ronda e, chiusi dentro casa, ascoltavamo impauriti il pesante rumore degli scarponi sulla strada; una volta il rumore s’interruppe davanti la nostra porta, facemmo nascondere tutti dentro la grotta, ma da quel momento mia madre capì che stava per accadere qualcosa. Una mattina arrivò un Abruzzese con un carico di patate; mia madre gli propose un affare: lei avrebbe acquistato l’intero quintale e lui avrebbe portato con sé, attraverso i sentieri di montagna, Enrico, Gabriella e i piccoli per lasciarli a Pescasseroli, dove avrebbero provveduto da soli a mettersi in salvo. Mentre le trattative erano in corso, giunse trafelata Enrichetta, amica dei Levi, a dire che il Comando tedesco aveva deciso di rilasciare il foglio di via per tutti gli internati e che, quindi, potevano finalmente considerarsi vicini alla liberazione. Mia madre capì che era un tranello e cercò di convincere anche Enrichetta a non presentarsi, ma non fece in tempo perché arrivarono “quelli col medaglione” e ordinarono ai Levi di prendere tutti gli oggetti di valore che avevano e di seguirli fino al Comando. Uscendo da casa, Italo si rivolse a mia madre chiamandola come sempre “zina Maria” e dicendole che non ci saremmo rivisti più. Andammo anche noi al Comando tedesco e mia madre portò persino i tagliolini in brodo che aveva preparato per pranzo, chiedendo ai soldati di far mangiare almeno i bambini ed offrendone un po’ anche a loro. Ad un certo momento arrivò un camion e li caricarono tutti come bestie. Per una settimana la nostra abitazione fu piantonata giorno e notte e fu perquisita da cima a fondo. I soldati volevano requisirci molte cose ed anche due materassi di lana, affermando che tutto ormai apparteneva al Commandatur. Noi opponemmo resistenza e, quando finalmente andarono via, urlarono “cattiva, mamma!”».

Il ritorno di Enrico
«Un anno dopo – continua Laura – ci arrivò un telegramma: “Vivo per miracolo, Enrico” e dopo un po’ di tempo arrivò anche lui, completamente calvo e scheletrito. Ci raccontò che, quando erano giunti nel campo di sterminio nazista, li avevano separati tutti, ma che Gabriella era riuscita a trattenere con sé i bambini ed insieme avevano trovato la morte nelle camere a gas. Disse anche di essersi salvato solo perché conosceva molte lingue e quindi capiva i discorsi dei carcerieri e che aveva salvato la vita anche ad altri. Poi Enrico partì per Firenze, città in cui aveva ancora degli amici su cui poter contare.
Poco tempo dopo mi sposai e, in viaggio di nozze, andai proprio da lui che ci fece visitare tutta la città. Per Enrico Firenze era il mondo. Quando nacque il mio bambino, Enrico ritornò a San Donato e portò un regalo per il piccolo. Disse che stava in una Comunità e che si trovava bene. Ma dopo qualche tempo ci arrivò la notizia della sua morte».